Come pensavo, le tavole di prova sono andate bene, per cui sto aspettando la sceneggiatura di un progetto della Cagliostro E-Press. 12 storie a fumetti di 12 pagine, di autori diversi. Distributo online, poi in vendita in volume.
Questa è una delle tavole di prova che ho mandato, ed è un tributo ad un autore a cui sono piuttosto affezionato, Gosaku Ota.
Vidi i disegni di Ota in edicola, editi dalla Fabbri e colorati velocemente da uno studio che fu poi il primo posto dove andai a lavorare in assoluto. A 20 anni, io e mia moglie coloravamo infatti le tavole del Corriere dei Piccoli. Era un lavoro molto manuale, di precisione e -tanto per cambiare- in lotta contro il tempo. Le chiamavono “temperette”.
Nei primi anni ’90 gli scanner non erano molto avanzati, almeno quelli che usavano in Rizzoli per il Corrierino. Per cui se scansionavano il colore insieme al nero, si macchiava parecchio. Quindi i colori erano separati dal nero. C’era un altro problema: stampato in rotocalco, ad alta velocità, il Corrierino aveva dei gran fuori registro, per cui se non c’era il colore sotto il nero, veniva fuori un filetto bianco intorno al tratto. Cosí i fumettisti facevano le loro tavole a fumetti in bianco e nero, venivano fotografate e ci passavano le pellicole (quindi in formato di stampa, mentre le tavole originali erano più grandi). Noi diligentemente mettevamo un foglio di acetato a contatto e lo coloravamo con degli acrilici mischiati a fiele di bue (d’estate veniva su un odorino…) e altri addittivii segreti preparati dalla signora Revelant, che ci insegnò i segreti della coloritura dei fumetti. Beh, le campiture erano quasi sempre piatte, il difficile era tenere i colori a contatto sotto il tratto nero, che in alcuni casi arrivava allo spessore di 0,1 mm. La Pimpa era una passeggiata, con quei bei tratti che faceva Altan, l’unica difficoltà era il naso sfumato di Armando.
Comunque una volta finito il lavoro, i fogli di acetato con i nostri colori venivano scansionati per produrre le pellicole degli altri tre colori di stampa e con quelle incidevano le lastre. Colorare la Stefi fu una mia soddisfazione personale, perché mi piace Grazia Nidasio da quando avevo 5 anni, con Valentina Melaverde che leggeva mia sorella. Ma non me la diedero subito perché dovevo prima imparare ad acquarellare gli acrilici sull’acetato trasparente. Si può fare? Sì e lo facevamo usando il fiele di bue al posto dell’acqua. Non sono cose che insegnano a scuola e i segreti dello studio erano ben custoditi nel mondo pre-internet e pre-tutorials. A parte questo tipo di trattamento, il lavoro non erano molto diverso da quello fatto a casa dai coloristi dei rodovetri degli anime in Giappone.
Infatti andavo da casa nostra allo studio a Cinisello, prendevo le pellicole, me ne tornavo a casa e coloravamo tutto su lavagne luminose per essere precisi sul contatto dei colori. Avevo trovato quel mio primo lavoro dopo quasi un mese di tentativi: avevo tutti gli indirizzi degli studi e agenzie di pubblicità di Milano presi dalle Pagine Gialle del Lavoro (in quelle normali non c’erano) ottenute dal primo colloquio fatto. Una ragazza gentile in un’agenzia me le fece fotocopiare, visto che da loro non cercavano collaboratori. Chiamai sistematicamente tutti i numeri di telefono cercando di ottenere un colloquio. A Milano c’erano qualche centinaia di agenzie e studi grafici e ne visitai una quarantina: uno o due appuntamenti al giorno. La signora Revelant al telefono fu colpita semplicemente dal fatto che dicevo di amare i fumetti, pur non sapendo di che cosa si occupasse lo studio. Accettò di visionare il mio portfolio e mi diede la prove, che superammo. voleva alleggerirsi per portare avanti dei suoi progetti di illustrazione e quella giovane e volonterosa coppia gli faceva comodo. I coloristi si beccavano tutti i ritardi degli altri: sceneggiatori, disegnatori, fotolito, per cui facevamo il lavoro in tre, massimo quattro giorni e passavamo il giorno successivo alla consegna a dormire.
Lo Studio Revelant colorava tutto il Corriere dei Piccoli, che era un settimanale. A dirla tutta, lo studio in quel periodo eravamo io, mia moglie, un’altra free-lance e la signora Revelant. Ma ci sono passati in parecchi, perché negli anni avrà colorato decine di migliaia di tavole di fumetti. Anche la prima edizione de il Gioco di Manara, che però non amava per l’argomento. Uno dei lavori più tirati via fu comunque proprio il Grande Mazinga della Fabbri. Certe cose se le inventavano di sana pianta, tipo le parti rosse sulla testa, non capendo bene come si agganciava il Brain Condor (non avevano mai visto una puntata), ma nessuno se la menava. Io quel fumetto lo scoprii col numero tre qui sotto, poi mi feci arrivare gli arretrati. Lo studio partiva bene col colorarlo, poi erano sempre più gran fondi monocolore, che mi facevano incazzare da bambino. Anche perché allora leggevo pure l’Uomo Ragno e, nonostante il retino di stampa alla Roy Lichtenstein e l’abuso del lilla scuro negli sfondi, i colori erano decisamente meglio. Conoscendo poi lo studio, capii che questo era sicuramente dovuto agli altrui ritardi accumulati: anche quello era un settimanale! Comunque anche se, soprattutto negli ultimi numeri, il colore era dato alla meno peggio, spesso copriva le magagne di un autore che pure lui non andava molto per il sottile. Credo che la corsa per la consegna accomunasse fumettisti e coloristi da una parte all’altra dell’oceano.
Ho letto da qualche parte, che ogni fumettista quando disegna paga un debito per quello che ha ricevuto, con un atto d’amore nei confronti dei disegnatori che ha amato da bambino, riprendendone lo stile. Io non ho pregiudizi e mi piace sia il fumetto realistico occidentale che il manga orientale. Quando ho iniziato non c’era verso di citare Ota, perché lo stile manga se lo schifavano tutti. Pago solo adesso, in piccola parte, il mio debito nei confronti di questo maestro dal tratto un po’ scazzato.