Una ragazza di nome Jun

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Ripensai al consiglio di Alfredo Castelli in “Come si diventa autore di fumetti”, per vincere la mia timidezza, mentre diciannovenne, cartellina sottobraccio, mi recavo insieme due compagni di scuola al mio primo colloquio di lavoro fumettistico. Stavo, ormai da ben 6 anni, cercando di raggiungere lo stato di “Curiosità continua“. Di che cosa si tratta? cito da pagina 16:

«Anche senza spostarsi dalla propria città si possono “scoprire” luoghi sconosciuti: basta frequentare, di tanto in tanto, ambienti che normalmente non ci interessano o che, addirittura, non approviamo: un night-club o una balera di liscio; una chiesa o una pista di pattinaggio su ghiaccio. Bisogna liberarsi dai propri preconcetti e provare ad analizzare le cose partendo da punti di vista opposti, il confronto genera inevitabilmente nuovi stimoli.

Se raggiungerete questo invidiabile stato di “curiosità continua”, verrete abbordati da ogni sorta di gente: vagabondi, ubriaconi, Testimoni di Geova, Bambini di Gesù, gente che parla coi Marziani, mercenari, killer professionisti, ipocondriaci, schizofrenici, che vi faranno le loro confidenze. Si tratta di persone a loro modo ricchissime interiormente, che sentono d’istinto una disponibilità sincera da parte vostra.»

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Tutto vero. A parte il Killer professionista (era solo un dilettante), nella mia vita ho incontrato tutte queste tipologie e tante altre, alcune ancora più assurde. E tutti mi hanno raccontato i fatti loro manco fossi il loro migliore amico.

Tornando al colloquio, era alla Ediperiodici, dallo zio di un mio compagno di liceo che aveva un ruolo direttivo (forse addirittura il co-fondatore, non ricordo).

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Non era il mio obiettivo finale disegnare i tascabili porno, ma decisi di non avere troppe remore, visto che mi interessava comunque l’esperienza: molti autori importanti si sono formati in questa casa editrice. Andmmo a far vedere le nostre tavole a fumetti, i lavori della scuola e le fanzine su cui pubblicavamo, per capire se si poteva collaborare. Lo zio del mio compagno, un signore molto cortese e distinto, ci spiegò che nonostante il genere fosse quello che fosse, le cose andavano fatte con serietà. C’erano due possibilità: le copertine o le tavole a fumetto vero e proprio. Ci fece vedere delle copertine pittoriche di una bellezza inarrivabile per me, ma più affine al mio compagno, che aveva già una discreta tecnica con gli acrilici.

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Noi altri due optammo per i fumetti veri e propri. Il mio amico doveva dipingere una copertina sull’esempio degli albi forniti. Di noi volevano vedere vedere come disegnavamo qualche tavola da una sceneggiatura. Fece a quel punto la comparsa un uomo di mezz’età un po’ inquietante, che mi ricordava gli assistenti dei supercattivi nei film horror. Notai queste braccia un po’ più lunghe del normale, ma forse mi ero fatto suggestionare dalla situazione.

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Feci anche caso che lo zio del mio compagno quando si rivolgeva a lui lo trattava un po’ male rispetto a noi, con cui continuava ad essere posato e gentile. Questo contribuiva a rendere la situazione un po’ inquietante. il signor “Riff Raff” ci consegnò una sceneggiatura definendola «bellissima», quella dei «vu cumprà» (così venivano chiamati gli immigrati africani che dalla metà degli anni 80 vendevano piccoli oggetti ai bagnanti camminando in continuazione per le spiagge).

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Lessi la sceneggiatura in macchina, mentre andavamo in gruppo a Livorno ospiti di un’amica un po’ più grande di noi. Il bagagliaio era pieno di tascabili sexy che ci erano stati generosamente donati come riferimento. Grazie a quelli, l’altro mio amico, che si cambiò per l’occasione il nome in Ulisse, si spacciò per un disegnatore del gruppo editoriale conquistando l’ammirazione dei nuovi amici livornesi, accaniti fan del genere tascabile.

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Tornando alla sceneggiatura in questione, dopo qualche pagina non potevo credere ai miei occhi. Raccontava la vicenda di tre napoletani che si tingevano la faccia con il lucido da scarpe, si spacciavano per “vu cumprà”, chiamandosi Cacao, Caffé e Orzo, e si spostavano a Milano dove stupravano una giovane donna! Giuro! Era proprio questa la sceneggiatura. Oggi sono abbastanza sicuro del fatto che fossimo stati messi alla prova, ma all’epoca, nonostante tutte le mie intenzioni, ci rimasi malissimo. Non feci le tavole: la storia, se questo era il suo intento, non mi  faceva ridere per niente.

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Non mi interessano le idee politiche, la religlione e ancor meno l’orientamente sessuale di una persona. Ma non posso disegnare fumetti che contengono messaggi di questo tipo.

Detesto il razzismo principalmente grazie a Gosaku Ota e una sua indimenticabile storia che lessi quando avevo 10 anni sulle pagine del settimanale “Il Grande Mazinga” della Fabbri. Questo per parlare un po’ del potere educativo dei fumetti, cosa di cui ci si dimentica troppo spesso.

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Ho grande attesa per il nuovo film di Mazinger Z Infinity, di imminente uscita, che sembra veramente bello.

Mentre seguivo entusiasta il susseguirsi di nuovi trailers, scoprendo che oltre allo Z compare anche il Grande Mazinger e Venus con relativi piloti, sono venuto a sapere che in questo film Jun ha realizzato il suo antico sogno. Nella nuova versione di Mazinger, la sua pelle è diventata molto più chiara.

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Peccato che quello non fosse veramente il suo sogno ma la reazione al trattamento che riceveva fin da bambina. Potrebbe essere una resa delle luci in questa scena che trae in inganno, ma apparentemente, forse con l’idea di mostrare alle nuove generazioni un personaggio più in linea con i loro gusti, si è coperto con un colpo di vernice il messagio di Ota. Praticamente il contrario di quello che succede con i Supereroi americani. E la cosa triste è che il motivo è lo stesso: voler vendere di più. Perché l’antirazzismo, quello vero,  la Marvel lo portava avanti decenni fa, presentando al pubblico personaggi inediti come Pantera Nera. Non dubito che non ci fosse anche ai tempi la volontà di fidelizzare un preciso target, ma nei contenuti si vede sincerità e rispetto. E anche qualche rischio, visto che stiamo parlando degli anni 60.

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Vi lascio con la bellezza malinconica di questa pagina. A 10 anni, dopo aver letto quella storia mi chiedevo come potesse una ragazza così bella essere disprezzata per il colore della sua pelle. Me lo chiedo ancora.

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Il cuore delle carte

Parte 1.

Nel 1998 avevo comincato a collaborare con Edibas preparando calendari e Poster. Da un mio viaggio in Giappone avevo portato a casa delle cart plastificate che erano state lo spunto per la creazione delle Lamincards, alla fine del 1999.

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Infatti l’idea inizale era quello di stampare delle semplici card da collezione (allora molto popolari nelle fiere) e plastificarle, ma i costi industriali non erano sostenibili. Si arrivò così per vari studi a quello che fu il più grande successo dell’azienda: le card trasparenti.

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Il mio primo approccio alle card fu quella della semplice collezione. La prima, “I Cavalieri dello Zodiaco” su licenza Yamato, era costituita da una serie di belle immagini e non erano giocabili.

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Lamincards Cavalieri dello Zodiaco, 2000

Anche le collezioni di Pokémon non erano, per ovvi motivi, giocabili, ma qui feci un lavoro di classificazione che permettesse ai collezionisti di avere le caratteristiche dei loro Pokémon. Non fu così facile come si possa pensare, perché Wikipedia all’epoca non si occupava di queste cose. Partendo da un piccolo manuale che avevo preso in USA (ma con solo i primi 150), cercavo i dati mancanti su più fonti,  spesso discordanti tra loro. Alla fine mandavamo delle tabelle alla Pokémon Company, dove la solita impiegata di basso rango gestiva la seccatura di questi italiani che facevano delle card di testa loro.

Lamincards Pokémon

Nell’estate del 2000 ero negli Stati Uniti e andai al Comicon di San Diego apposta per incontrare Rumiko Takahashi, a cui donai un grande mazzo di rose bianche del Texas.

Luciano Costarelli meets Rumiko Takahashi

Io con di spalle con polo verde acqua mentre consegno le rose alla divina Rumiko Takahashi che si innamora di me all’istante ;P

Approfittai del viaggio per comprare Pokémon giallo, che da noi non era ancora uscito. Quando mesi dopo iniziai a preparare le collezioni, cominciai a giocarci anche sui mezzi pubblici, incurante del fatto che in quegli anni nessun adulto giocasse ai Pokémon, o meglio, non in pubblico. Ma, secondo me, se non riesci ad entrare in sintonia con la licenza, il tuo prodotto non piacerà facilmente agli appassionati e non venderà bene.

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Invece le lamincards dei Pokémon vendevano da Dio! Dopo l’Italia le facemmo per la Spagna, con l’amico Joaquín Solano di Mundicromo, poi Francia, inghilterra, anche Germania. Ogni serie vendeva più della precedente.

(Parte di un video di Ossiél&Sora, su Youtube il video completo)

Vendevano così bene che se ne accorsero anche alla Topps. Nei Paesi dove erano distribuite , le vendite delle loro tradingcards avevano dei cali. Non intaccavamo i giocatori abituali, ma i più piccoli preferivano collezionare le nostre card perché erano belle. Il risultato fu la comunicazione che  non ci avrebbero rinnovato la licenza perché le Lamincards intaccavano il core business di un loro partner importante.

Raccoglitore Lamincards PokemonIntanto un competitor nostrano ci aveva soffiato con spregiudicatezza il mercato della card del Wrestling stampandole  prima di avere l’approvazione, uscendo con immagini in bassa risoluzione e il watermark WWE. In pratica quando compravi la licenza ti davano immagini in bassa con un bel watermark sopra, solo una volta approvati gli artwork ricevevi le immagini in alta e potevi stamparle. Come facevamo noi e come facevano tutti…o quasi.

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prima collezione di Lamincards del Wrestling WWE

Per la legge dei profitti, non gli ritirarono la licenza perché vendevano qualcosa come 10 milioni di bustine. Stamparono le nuove card con le immagini approvate e tutti furono contenti, tranne noi che eravano stati corretti e avevamo stampato solo dopo l’approvazione. Arrivando per secondi ne vendemmo un decimo. L’unica soddisfazione, un sito americano di collezionisti, definì le nostre, “le più belle card del Wrestling mai prodotte”. Sono cose che non si dimenticano.

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Ma l’amarezza per la perdita della licenza Pokémon che non sarebbe proseguita e il tiro del nostro competitor avevano fiaccato il morale non poco. A quanto pare la notte è sempre più buia prima dell’alba, e quell’alba stava arrivando a bordo di una nuvola dorata!

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(continua…)

 

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Calendario Ufficiale Magic Knight Rayearth

A metà degli anni 90 muovevo i primi passi nel mondo della grafica. Avevo una baracca di Macintosh 8500 da 100 Mhz in comproprietà. Era una macchina da ufficio sovrapotenziata, che spremevo fino all’inverosimile per fare grafica, ambiente che non era quello per cui era progettato originariamente questo computer, ma una workstation decente costava sui 14 milioni di lire, paragonabili ad una decina di migliaia di euro di oggi. La svolta avvenne grazie ad una grande azienda italiana di caldaie.

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Caius Camillus Immergas

Con i soldi ottenuti dal restyling e dalle illustrazioni di un personaggio-testimonial per Immergas, illustrazioni fatte rigorosamente a mano, avevo ottenuto abbastanza soldi da comprarmi un nuovissimo Apple Macintosh 9600 e un costoso pacchetto di programmi. Photoshop 4 non aveva più segreti per me! Avevo avuto una breve frequentazione di prova con un Illustrator, ma poi avevo comprato Free-Hand, apparentemente più versatile (mi convertii anni dopo al dogma Adobe) e avevo imparato a impaginare bene con X-Press, il programma più costoso, addirittura protetto via Hardware. Quindi andavo a caccia di clienti per sfogare quella potenza di fuoco da 300 megahertz!

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Avevo già avuto la mia prima esperienza nel mondo del Licensing con “Il Re Leone” della Disney. Ero un free-lance di Promotions Italia e Enzo Marzo mi passò del lavoro per una operazione che sinceramente non ricordo. O forse era la McCann. Boh. In quel periodo giravo come una trottola per una dozzina di agenzie pubblicitarie di Milano. Lavoro ce n’era a pacchi, il solo limite era il sonno.

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Il mio ultimo calendario: Beyblade Metal Fusion

Dove che fosse, avevo visto la mia prima Style Guide e… cavoli, se era una Style Guide con tutti i crismi, allora così belle le faceva solo la Disney. Studiai a fondo la sua composizione, al di là del lavoro che poi feci. Una Style Guide è una specie di bibbia che ti dice come devi utilizzare il materiale grafico di una licenza. Può essere un pdf, addirittura una presentazione in Powerpoint, o un ricco ed elaborato contenitore cartotecnico, che include anche dei dischi con tutti i files da usare, le font, i loghi, le corrette linee di copyright, textures, fondi e, naturalmente, le immagini dei personaggi. Oggi, sempre di più, sono dei siti protetti da password da dove si può, se accreditati, scaricare tutto il materiale che serve per lavorare con le licenze.

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Style Guide Barbie 2008

Nel 1997, ad una fiera di settore mi presentarono Adelmo Basso, il fondatore di Edibas. Cercava un grafico che conoscesse bene i cartoni animati giapponesi perché stava comprando delle licenze per i calendari. Aveva già stampato delle cartoline e dei miniposter di licenze gestite dalla Backstage, tra cui fece un colpaccio prendendo i diritti di Di Caprio prima che girasse Titanic. Aveva pensato di proporre i calendari in formato A3 spiralati. In Italia quel periodo i calendari di questo tipo erano quasi solo quelli con le donnine nude, che venivano chiamati “da camionisti”. Utilizzarli per tutti i target esistenti, con cantanti, attori e cartoni animati credo ci avesse pensato lui per primo da queste parti.

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Calendario 1999 Magic Knight Rayearth

Basso aveva come licenze di anime DragonBall Z e Ranma 1/2 che erano le due serie più popolari in quel periodo. Preparai Dragonball Z  e lo portammo in anteprima ad una fiera in Liguria. Era veramente figo.

Andò esaurito in una mattinata.

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Lavorai sui calendari Edibas per una decina di anni. Rispetto agli altri grafici che facevano calendari in quel periodo, seguivo alcune regole dettate dal mio istinto: la prima, la più importante era che l’immagine doveva possibilmente occupare il 95% della pagina, se uno proprio voleva vedere che giorno era si doveva avvicinare. Ma lo scopo vero di questi calendari era arredare una cameretta con le immagini dei personaggi e dei cartoni che si amano, immagini che cambiano ogni mese e che siano il più possibile  legati alla stagione, al mese almeno cromaticamente. Ammetto che non sempre facevo delle belle pagine. E in genere le Font scelte nei primi anni facevano schifo. In fondo ero ancora un pivello della grafica, ma usavo il mio gusto da illustratore, cercando sempre di pensare a quello che poteva piacere a un fan documentandomi il più possibile sulle serie rappresentate. Seguendo queste semplici regole, i miei calendari vendevano benissimo. Come vezzo personale, nel mio mese di nascita  mettevo i personaggi che mi piacevano di più. A volte avevo come immagine solo il personaggio scontornato o su fondo bianco, e nessun background adatto. Allora facevo io lo sfondo con gli acrilici, a volte molto elaborati, a volte molto pittorici, gestuali, come per questa Ucchan di Ranma 1/2 qui sotto.

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Ranma 1/2 Official Calendar 2000

Cosa questa che sarebbe impossibile da fare oggi, dove tutto è rigorosamente regolamentato, e anche una scimmia potrebbe fare dei prodotti decenti su licenza se seguisse scrupolosamente la Style guide (cosa che però non avviene tanto spesso), ma il licensing con i cartoni, in quegli anni era veramente pionieristico, e anche la TOEI della fine del XX° secolo non era molto organizzata in questo senso.

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Toei Animation

Intendiamoci: credo di non aver mai lavorato così bene con nessuno come con la TOEI.  Quel modo di fare affari tipicamente giapponese per cui dopo averti duramente messo alla prova, si stabiliscono dei legami duraturi con i fornitori/clienti era molto interessante. Addirittura, dopo la “notte dei 100 bozzetti di Dragonball” mi chiesero una consulenza quanto realizzarono l’aggiornamento delle Style Guide di One Piece. Non feci bozzetti, ma influenzai la tipologia delle pose. Beh, diavolo! Queste sono soddisfazioni! Poi un giorno vi racconterò dello straordinario cross-over italiano DragonBallZ vs One Piece che non si fece per un soffio…

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Calendario 2003 One Piece

In una struttura gerarchica di una grande azienda, però la mentalità degli impiegati di non scostarsi dalle procedure, a volte remava decisamente contro. Dovevo realizzare il calendario ufficiale di Sailor Moon del 2000, per cui volevo scegliere tra le immagini più belle a loro disposizione da farmi inviare.

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Chiesi tutte le immagini disponibili ma l’impiegata preposta a questo insisteva a mandarmi delle diapositive via fax.

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I più giovani magari non hanno manco mai visto un fax, ma era uno strumento diffusissimo fino a un decennio fa per trasmettere in bianco e nero immagini e documenti da una parte all’altra del mondo via telefono. Quindi il mio fax stampava, a costi telefonici intercontinentali esorbitanti, metri e metri di carta termica con dei box completamente neri.

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Illustrazione di Luciano Costarelli

Dopo molti tentativi, riuscii a far capire all’impiegata il problema, così mi inviò direttamente via posta le stampe. Una volta arrivata e aperta la busta, scoprii che la donna aveva fatto una serie di fotocopie in bianco e nero delle diapositive, seguendo una qualche procedura aziendale pensata per altro e quindi mi faxava già di partenza dei box praticamente neri!

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Risolsi il problema andando direttamente in Giappone a scegliere le diapositive presso un ufficio della Toei che si occupava del licensing. Il viaggio servì anche per fare un po’ di scouting, e a vedere altre cose, ma senza questo problema dubito sarei stato mandato fin lì. A onor del vero devo essere davvero grato a quella impiegata giapponese un po’ tonta!

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Illustrazione di Luciano Costarelli

Giganti d’acciaio

Come pensavo, le tavole di prova sono andate bene, per cui sto aspettando la sceneggiatura di un progetto della Cagliostro E-Press. 12 storie a fumetti di 12 pagine, di autori diversi. Distributo online, poi in vendita in volume.

Questa è una delle tavole di prova che ho mandato, ed è un tributo ad un autore a cui sono piuttosto affezionato, Gosaku Ota.

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Vidi i disegni di Ota in edicola, editi dalla Fabbri e colorati velocemente da uno studio che fu poi il primo posto dove andai a lavorare in assoluto. A 20 anni, io e mia moglie coloravamo infatti le tavole del Corriere dei Piccoli. Era un lavoro molto manuale, di precisione e -tanto per cambiare- in lotta contro il tempo. Le chiamavono “temperette”.

Nei primi anni ’90 gli scanner non erano molto avanzati, almeno quelli che usavano in Rizzoli per il Corrierino. Per cui se scansionavano il colore insieme al nero, si macchiava parecchio. Quindi i colori erano separati dal nero. C’era un altro problema: stampato in rotocalco, ad alta velocità, il Corrierino aveva dei gran fuori registro, per cui se non c’era il colore sotto il nero, veniva fuori un filetto bianco intorno al tratto. Cosí i fumettisti facevano le loro tavole a fumetti in bianco e nero, venivano fotografate e ci passavano le pellicole (quindi in formato di stampa, mentre le tavole originali erano più grandi). Noi diligentemente mettevamo un foglio di acetato a contatto e lo coloravamo con degli acrilici mischiati a fiele di bue (d’estate veniva su un odorino…) e altri addittivii segreti preparati dalla signora Revelant, che ci insegnò i segreti della coloritura dei fumetti. Beh, le campiture erano quasi sempre piatte, il difficile era tenere i colori a contatto sotto il tratto nero, che in alcuni casi arrivava allo spessore di 0,1 mm. La Pimpa era una passeggiata, con quei bei tratti che faceva Altan, l’unica difficoltà era il naso sfumato di Armando.

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Comunque una volta finito il lavoro, i fogli di acetato con i nostri colori venivano scansionati per produrre le pellicole degli altri tre colori di stampa e con quelle incidevano le lastre. Colorare la Stefi fu una mia soddisfazione personale, perché mi piace Grazia Nidasio da quando avevo 5 anni, con Valentina Melaverde che leggeva mia sorella. Ma non me la diedero subito perché dovevo prima imparare ad acquarellare gli acrilici sull’acetato trasparente. Si può fare? Sì e lo facevamo usando il fiele di bue al posto dell’acqua. Non sono cose che insegnano a scuola e i segreti dello studio erano ben custoditi nel mondo pre-internet e pre-tutorials. A parte questo tipo di trattamento, il lavoro non erano molto diverso da quello fatto a casa dai coloristi dei rodovetri degli anime in Giappone.

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Infatti andavo da casa nostra allo studio a Cinisello, prendevo le pellicole, me ne tornavo a casa e coloravamo tutto su lavagne luminose per essere precisi sul contatto dei colori. Avevo trovato quel mio primo lavoro dopo quasi un mese di tentativi: avevo tutti gli indirizzi degli studi e agenzie di pubblicità di Milano presi dalle Pagine Gialle del Lavoro (in quelle normali non c’erano) ottenute dal primo colloquio fatto. Una ragazza gentile in un’agenzia me le fece fotocopiare, visto che da loro non cercavano collaboratori. Chiamai sistematicamente tutti i numeri di telefono cercando di ottenere un colloquio. A Milano c’erano qualche centinaia di agenzie e studi grafici e ne visitai una quarantina:  uno o due appuntamenti al giorno. La signora Revelant al telefono fu colpita semplicemente dal fatto che dicevo di amare i fumetti, pur non sapendo di che cosa si occupasse lo studio. Accettò di visionare il mio portfolio e mi diede la prove, che superammo. voleva alleggerirsi per portare avanti dei suoi progetti di illustrazione e quella giovane e volonterosa coppia gli faceva comodo. I coloristi si  beccavano tutti i ritardi degli altri: sceneggiatori, disegnatori, fotolito, per cui facevamo il lavoro in tre, massimo quattro giorni e passavamo il giorno successivo alla consegna a dormire.

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Lo Studio Revelant colorava tutto il Corriere dei Piccoli, che era un settimanale. A dirla tutta, lo studio in quel periodo eravamo io, mia moglie, un’altra free-lance e la signora Revelant. Ma ci sono passati in parecchi, perché negli anni avrà colorato decine di migliaia di tavole di fumetti. Anche la prima edizione de il Gioco di Manara, che però non amava per l’argomento. Uno dei lavori più tirati via fu comunque proprio il Grande Mazinga della Fabbri. Certe cose se le inventavano di sana pianta, tipo le parti rosse sulla testa, non capendo bene come si agganciava il Brain Condor (non avevano mai visto una puntata), ma nessuno se la menava. Io quel fumetto lo scoprii col numero tre qui sotto, poi mi feci arrivare gli arretrati. Lo studio partiva bene col colorarlo, poi erano sempre più gran fondi monocolore, che mi facevano incazzare da bambino. Anche perché allora leggevo pure l’Uomo Ragno e, nonostante il retino di stampa alla Roy Lichtenstein e l’abuso del lilla scuro negli sfondi, i colori erano decisamente meglio. Conoscendo poi lo studio, capii che questo era sicuramente dovuto agli altrui ritardi accumulati: anche quello era un settimanale! Comunque anche se, soprattutto negli ultimi numeri, il colore era dato alla meno peggio, spesso copriva le magagne di un autore che pure lui non andava molto per il sottile. Credo che la corsa per la consegna accomunasse fumettisti e coloristi da una parte all’altra dell’oceano.

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Ho letto da qualche parte, che ogni fumettista quando disegna paga un debito per quello che ha ricevuto, con un atto d’amore nei confronti dei disegnatori che ha amato da bambino, riprendendone lo stile. Io non ho pregiudizi e mi piace sia il fumetto realistico occidentale che il manga orientale. Quando ho iniziato non c’era verso di citare Ota, perché lo stile manga se lo schifavano tutti. Pago solo adesso, in piccola parte, il mio debito nei confronti di questo maestro dal tratto un po’ scazzato.